Il fiume Piave a 360 gradi: problemi, risorse e storia

Il fiume Piave a 360 gradi: problematiche, risorse e storia

Una lunga carrellata di articoli, pubblicati nel corso di oltre 10 anni, in diversi quotidiani e periodici.

1 Novembre 2006

Alluvione:40 anni dopo

Il Piave fa ancora paura

Quando all’idrometro di Segusino il fiume raggiunse quota 6,5 metri,il destino della  pianura fu segnato. L’acqua travolse case e campagne.Tre le vittime. di Ingrid Feltrin
La mattina del 4 novembre 1966 il cielo della Marca era di un grigio plumbeo, del resto stava piovendo insistentemente da giorni.Solo gli abitanti dei comuni rivieraschi oltre a scrutare il cielo guardarono con timore al fiume. Il Piave si era ingrossato a dismisura,lo scioglimento delle nevi cadute tra quota 850 e 1200 metri, in seguito ad un inconsueto innalzamento stagionale delle temperature, unito all’eccezionalità delle precipitazioni,aveva ridestato il fiume dal suo torpore. Gli anziani scrutavano in silenzio le acque del Piave che si gonfiavano lambendo progressivamente i piloni e le arcate dei ponti, memori di ricordi inquietanti. All ‘idrometro di Segusino, al confine tra Belluno e Treviso, il fiume aveva raggiunto quota 6,48 metri: il destino della pianura era ormai segnato. Quando nella Marca giunsero le prime notizie dei danni nel bellunese (dove si contavano decine di morti), era già troppo tardi. Una massa immane d ‘acqua defluì nel trevigiano. Le grave di Ciano del Montello,ampie tre chilometri, attutirono la piena, ma per poco. L’ondata proseguì la sua corsa e con l ‘approssimarsi alla stretta di Nervesa della Bataglia, il Piave si riappropiò rovinosamente del suo antico e ampio alveo, travolgendo tutto ciò che gli si parava davanti. La forza delle acque fu devastante, a Ponte di Piave il ponte stradale venne spazzato via ma è a Zenson che si registrarono i danni più ingenti,immortalati dalle storiche foto delle carcasse di animali,decimati nelle stalle e negli allevamenti dall’alluvione.A soli 3 anni dalla catastrofe del Vajont il fiume aveva ricordato a tutti la sua natura incontrollabile. Le genti rivierasche si unirono in una strenue lotta contro il fango:centinaia di volontari lavorarono per riempire sacchi di sabbia e per mettere in salvo la popolazione e quel poco che era possibile recuperare nelle povere abitazioni di campagna. L ‘esercito inviò un grosso contingente di uomini per aiutare la popolazione,tant ‘è che una delle tre vittime trevigiane dell ‘alluvione del 1966, fu proprio un soldato rimasto imprigionato in un mezzo militare, travolto dalla piena. Case,fabbriche,strade, interi paesi vennero allagati da un onda di piena che l’ingegnere Antonio Borrelli, primo Segretario generale dell’Autorità di bacino dell’alto Adriatico, classificherà come evento cinquecentenario. Il carattere torrentizio del Piave contemplava morbide o piene in primavera ed in autunno,con una portata media a Segusino tra i 255 e i 1.200 metri cubi d ‘acqua al secondo, ma il 4 novembre 1966 ne passarono ben 4.450.I molti affluenti del Piave contribuirono a far precipitare a valle una massa d ‘acqua che fino a quel momento,solo gli archivi storici ricordavano:nel 1.313 il Piave lambì la città di Treviso, e ancor prima nell ‘820 distrusse Feltre. Venerdì 4 novembre 1966 il fiume terminò a fatica la sua corsa, poiché una violenta mareggiata, bloccò la piena alla foce, impedendo al fiume di sfogare la sua furia. A farne le spese fu San Donà e tutto il Basso Piave trasformato in un acquitrino per mesi:i profughi fecero ritorno a casa solo nel marzo 1967. Nell ‘ottobre 1966 l ‘Italia intera finì sott ‘acqua e il dramma del Piave destò un interesse marginale di fronte alle immagini di Firenze sommersa dal fango.

7-9-2003
GIU’ LE MANI DAL PIAVE!
Ingrid Feltrin
La gente che vive lungo un fiume impara a conoscerlo grazie agli eventi stagionali: a temerlo quando c’è la piena e ad appezzarlo quando con l’estate diventa un’oasi di ristoro. Un rapporto tra uomo e ambiente che si riscontra anche per le popolazioni rivierasche del Piave che però in questi mesi hanno visto nel fiume l’emblema di una sconfitta, quasi un monumento alla cattiva gestione del fiume sacro alla Patria, ridotto a poco più di un rivolo. Il Piave come tutte le aste idriche a carattere torrentizio è soggetto a grandi sbalzi di portata, ma passare dei 1800 mc/sec. del novembre scorso ai 3 mc/sec. di fine agosto è davvero inconsueto.
Ma di chi è la colpa? Del grande caldo, delle piogge insussistenti o di una gestione poco oculata da parte dell’uomo di una risorsa preziosa come l’acqua? In queste ultime settimane molti hanno parlato di oro blu ma è un termine che calzerebbe decisamente meglio per altre zone del pianeta, non certo per una provincia come quella trevigiana che qualcuno ha detto galleggi sull’acqua. In effetti oltre a circostanze naturali eccezionali, c’è anche una responsabilità umana se il Piave è stato messo in ginocchio, sfiorando la catastrofe naturale di cui si sono avute serie avvisaglie con la morìa di pesci in molte zone, tanto che la Provincia ha dovuto vietare la pesca per salvare la fauna ittica.
A spartirsi le risorse del fiume sono da una parte l’Enel che comunque rende in buona parte l’acqua prelevata, dall’altro viceversa ci sono i Consorzi di bonifica che distribuiscono la risorsa del fiume alla pianura attraverso i canali. Le concessioni irrigue dei consorzi sono pari a 106 mc/sec: un diritto che però deve sottostare alla legge che impone di lasciare a tutti i corsi d’acqua un “minimo deflusso vitale”.
A far rispettare questo diritto è l’Autorità di bacino dell’a lto Adriatico, l’ente che ha il compito di pianificare la realtà fluviale e che in questi mesi ha ridotto progressivamente i prelievi idrici prima del 30% e poi del 50%. I “decreti siccità” però non sono bastati a garantire dignità al fiume, di cui non beneficia solo l’agricoltura: canali come la Piavesella (di Nervesa) portano grandi quantità d’acqua a Treviso per rimpinguare il Sile, affinché d’estate non diventi una cloaca a cielo aperto, dal momento che nel capoluogo la rete fognaria è carente e c’è ancora chi scarica le acque reflue nel fiume cittadino.
Non va poi dimenticato che in molti tratti il reticolo dei canali è un colabrodo e l’oro blu viene sprecato; senza contare che solo il consorzio Brentella usa in larga parte impianti irrigui a pioggia (che fanno risparmiare acqua) mentre gli altri usano sistemi a scorrimento. In questi mesi inoltre i laghi montani si sono rapidamente prosciugati e l’unica acqua disponibile era quella che restava nel fiume. Viene quindi da chiedersi quali misure fosse necessario adottare per tutelare le esigenze umane e fluviali. Un interrogativo a cui ha risposto l’ingegner Antonio Rusconi, segretario generale dell’Autorità di bacino, ricordando che il suo ente ha fatto già da tempo un piano stralcio sulla risorsa idrica, ma che langue in un cassetto perché mancano i fondi per attuarlo.
Presidente del Comitato intercomunale per la difesa del Piave
www.comitatopiave.too.it

 

 

LA TRIBUNA DI TREVISO
LUNEDÌ, 28 LUGLIO 2003
Pagina 8 – Cronaca
Il segretario generale dell’Autorità di bacino: «Esiste un piano contro le crisi idriche, ma lo Stato non lo finanzia»
Piogge scarse, Piave in ginocchio
Fiume ancora in secca e falde quasi prosciugate, è allarme
Il presidente Romano «Gli invasi montani calano troppo in fretta Tra una settimana non ci sarà acqua»
La pioggia caduta questi giorni nella Marca non ha portato alcun beneficio sostanziale né alle falde né al Piave. La situazione quindi non muta e l’emergenza siccità non solo permane ma si sta progressivamente aggravando. «Se non piove in montagna non avremo alcun beneficio e le scarse precipitazioni di questi giorni hanno dato solo l’illusione di un inversione di rotta», spiega Giuseppe Romano, presidente del consorzio di bonifica Brentella. Il Piave è in secca ma la crisi idrica si poteva prevenire: questo è quello che pensa Antonio Rusconi, segretario generale dell’Autorità di bacino dell’alto Adriatico.
 «Non si sono registrati – continua Romano – valori tali da indurci a stare tranquilli, anzi dalle ultime notizie raccolte gli invasi montani stanno calando con velocità notevole e se continua così fra una settimana non ci sarà più acqua, con il conseguente taglio della risorsa idrica per l’irrigazione, al fine di preservare la pur esigua acqua rimasta in falda». Ma Romano spiega anche che a fronte dei 40 millimetri di pioggia necessari sia in montagna che in pianura, in questi giorni le precipitazioni sono state a macchia di leopardo con una media di 3 o 4 millimetri e picchi isolati di 15. Insomma nulla di nuovo, tanto più che anche la temperatura non è scesa di molto visto l’alto tasso di umidità. «Se in montagna avesse piovuto in modo sostanziale l’acqua del fiume sarebbe sporca e più abbondante, ma basta affacciarsi a uno qualsiasi dei ponti sul Piave per vedere che è poca e limpida – conclude Romano – Non ricordo una situazione così seria nell’intera storia del nostro consorzio, nemmeno il tanto citato 1993 era stato così drammatico». Questa situazione, secondo il presidente del Brentella, oltre ad essere allarmante per l’agricoltura, sta mettendo a dura prova soprattutto la falda da cui emungono gli acquedotti, per la quale non basterebbero certo due e tre giorni di pioggi, dal momento che in alcune zone è calata a dismisura. Ma non si poteva correre ai ripari per tempo? Sì, a sentire Antonio Rusconi: «In questi giorni ho sentito molte dichiarazioni che accusavano le istituzioni di non aver pianificato la gestione dell’acqua ma questo non risponde al vero – spiega Rusconi – per il Piave infatti esiste un piano specifico che basterebbe attuare se solo lo Stato avesse finanziato gli interventi. Proposte come quella degli agricoltori e dei consorzi di bonifica di usare le cave dismesse per farne dei serbatoi di riserva d’acqua per la siccità, sono infatti contemplate nel piano ma mancano i soldi per attuarle. Mi rendo contro che i finanziamenti per la difesa del suolo spesso sono dirottati sulle calamità che sono chiaramente prioritarie e, quindi è difficile reperire ulteriori contributi. Ad ogni modo, qualcosa si sta muovendo visto che la Regione ha finanziato in via sperimentale uno di questi interventi, avviando la realizzazione di bacino in una cava di Colle Umberto: c’è da sperare che a questa seguano altre iniziative».
 Ma Rusconi s’interroga anche su altri aspetti importanti della questione, aprendo una seconda riflessione sulla crisi idrica: «Mi domando come sia possibile che in un territorio come il Nordest, tra i più ricchi d’acqua del paese, si possa arrivare a questo punto. Da noi piove il doppio della media nazionale (1 metro l’anno) e in alcune zone addirittura il triplo, evidentemente, proprio nella consuetudine di poter disporre di grandi quantità d’acqua, non si è maturata una cultura del risparmio». Intanto per far fronte alla crisi del Piave, Rusconi ha prorogato le delibere sulla siccità riducendo del 10 % i prelievi per i consorzi e limitando a 7 metri cubi al secondo il rilascio alla traversa di Nervesa. Ma se non piove, nemmeno queste misure potranno salvare l’economia agricola: «Se non piove siamo rassegnati al peggio – sottolinea Romano – I 35 metri cubi al secondo che ci vengono assegnati d’estate (d’inverno sono 15 mc/sec) sono stati ridotti a 31,5 e i laghi sono quasi vuoti. Bisogna usare le cave che sono sopra il livello di falda come serbatoi».
(Ingrid Feltrin)

LA TRIBUNA DI TREVISO
LUNEDÌ, 28 LUGLIO 2003
Pagina 8 – Cronaca
L’APPELLO
Zambon: «I Comuni cambino regole per risparmiare»
Giovedì l’autorità d’ambito territoriale ottimale ha inviato ai 103 Comuni che aderiscono all’ente per la gestione del ciclo dell’acqua una richiesta formale per il risparmio della risorsa idrica attraverso l’introduzione, nei rispettivi regolamenti edilizi, di nuove norme. I Comuni sono stati invitati a stanziare degli incentivi per i cittadini che adegueranno i propri impianti idrici secondo criteri di risparmio dell’acqua, ma è stato anche chiesto che per ogni nuova abitazione s’introduca l’obbligo d’istallare una cisterna di raccolta delle acqua meteoriche a cui attingere per l’irrigazione di orti e giardini. Le proposte dell’Aato, presieduto dal sindaco di Conegliano Floriano Zambon, consentiranno di portare i Comuni del comprensorio ai livelli di efficienza dei maggiori paesi europei. Va infatti ricordato che accorgimenti quali l’uso di cisterne per l’acqua piovane sono di prassi in Francia e Germania così come il sostegno economico a coloro che si attivano per risparmiare la risorsa idrica, realizzando impianti a doppio flusso per evitare che nello sciacquone ci finisca dell’acqua potabile. «All’Aato aderiscono Comuni delle province di Venezia, Belluno, Vicenza ma soprattutto di Treviso dove si contano 8200 chilometri di acquedotto e solo 2000 di fognatura – spiega Zambon – questo dato dà la misura di quanto poco si è investito fino ad ora per ottimizzare e risparmiare una risorsa preziosa come l’acqua. Per questa ragione, anche alla luce della siccità attuale, ci siamo attivati per sensibilizzare i Comuni ad una gestione più lungimirante e attenta dell’acqua. Certo in alcuni Comuni, tra i quali Conegliano e San Fior, sono già stati avviati dei provvedimenti per assegnare degli incentivi economici a chi adegua il proprio impianto idrico per un maggiore risparmio della risorsa, ma si tratta di casi isolati. Lo stesso vale per l’istallazione di cisterne nei giardini, al fine di raccogliere l’acqua meteorica e usarla per lavare l’auto o irrigare orti e giardini. Con questo provvedimento è auspicabile che la situazione cambi rapidamente, perché non è accettabile che una delle aree più ricche d’acqua del paese, possa entrare in sofferenza per la siccità». Zambon precisa inoltre che ai Comuni è stato chiesto di emettere delle ordinanze per fronteggiare la siccità ma soprattutto di farle rispettare, informando i cittadini sul come fare. (i.f.)

 

 

 

 

 

Treviso, sabato 14 giugno 2003, S. Eliseo profeta
L’Italia chiede l’acqua alla Slovenia
Allarme siccità sui fiumi del Nordest, si muove il ministero degli Esteri
Il Piave pur in secca accusa problemi meno gravi degli altri fiumi del Veneto
VENEZIA. L’Italia chiede acqua alla Slovenia per fronteggiare la siccità. L’iniziativa dell’Autorità di bacino dell’Alto Adriatico non ha precedenti, ma la gravità dell’emergenza idrica è tale che per salvare dal tracollo il fiume Isonzo non resta che sperare nella generosità degli sloveni. «L’Isonzo che per due terzi scorre in Slovenia, è in grado di rispondere alle esigenze idriche solo per pochi giorni – spiega l’ingegner Antonio Rusconi, segretario generale dell’Autorità di bacino – per questa ragione ho inviato una richiesta al nostro ministero degli Esteri, affinchè domandi formalmente alle autorità slovene un maggiore rilascio d’acqua dai serbatoi montani».
«Solitamente i rapporti con Lubiana sono ottimi – prosegue Rusconi – tant’è che quando ci sono le piene gli sloveni ci forniscono i dati sulla portata e sull’ora d’arrivo dell’onda di piena a Ponte Piuma a Gorizia. Speriamo che possano darci una mano anche questa volta, sempre che i loro bacini siano ancora in grado di rilasciarci un po’ d’acqua. E’ la prima volta che ci vediamo costretti a imboccare questa strada, ma non ci sono alternative visto il livello di criticità raggiunto all’Isonzo».
Tutti i fiumi del Veneto sono in emergenza per la mancanza d’acqua, ma a registrare la sofferenza maggiore sono soprattutto quelli del versante orientale. Anche sul Tagliamento la situazione non è rosea e proprio ieri Rusconi ha firmato una delibera per la riduzione della portata di rilascio per l’irrigazione che è stata fissata in 2,2 metri cubi al secondo (solitamente è di 8 metri cubi al secondo).
Non è un caso se la prossima settimana si terrà a Pordenone un convegno su come governare i fiumi. E pure a Maserada, in provincia di Treviso, il 21 giugno ci sarà un incontro pubblico per parlare dei problemi del Piave.
Ma se i fiumi del Veneto orientale sono allo stremo, non se la passano meglio il Brenta e il Bacchiglione: la grave crisi idrica provocata da un calo delle precipitazioni stagionali stimato al 50% ha fatto scendere le falde di un metro ed esaurito le risorgive. L’Autorità di bacino ha perciò anticipato i prelievi dal serbatoio del Corlo, attingendo alle risorse idriche immagazzinate per il mese di luglio. Il Livenza, così come il Cellina e il Meduna hanno riserve d’acqua solo per i prossimi dieci giorni, passati i quali gli agricoltori non sapranno come irrigare le coltivazioni. L’Adige non se la passa meglio e registra una crisi idrica preoccupante, mentre il Piave accusa problemi meno gravi. I tre «decreti siccità» hanno infatti consentito di economizzare le riserve idriche nei serbatoi montani: con il primo provvedimento è stato ridotto del 30% il prelievo irriguo e quello relativo al minimo deflusso vitale (per l’Enel), mentre con il secondo decreto quest’ultimo valore è stato portato al 15% azzerandolo poi con il terzo; viceversa per i consorzi irrigui la riduzione del 30% è stata confermata in tutti e tre i provvedimenti. Il Piave inoltre è l’unico fiume del Veneto ad avere ancora serbatoi nivali, anche se nelle scorse settimane ha comunque dato il suo tributo alla scarsa piovosità con una notevole moria di pesci.

Alla luce di tutto questo l’ingegner Antonio Rusconi propone una diversa gestione delle risorse idriche, pensando a creare «riserve pluriennali per fronteggiare anche gli eventi climatici straordinari».(i.f:)

 

Treviso, mercoledì 4 dicembre 2002, S. Giovanni Damasceno
G. TREVISO MOGLIANO
AMMINISTRATORI E AMBIENTALISTI
Tutti d’accordo: «Così non si può continuare»
i.f.

NERVESA. Sull’edificazione in alveo è incredibile ma tutti, amministratori e ambientalisti, sono d’accordo. Ciò nonostante gli edifici sono numerosissimi e alcuni sono anche recenti. «L’edificazione in alveo è un fenomeno poco felice – commenta il sindaco di Nervesa della Battaglia, Francesco Tartini – che reputo non possa giustificare proposte come quella della diga di Falzè che ad ogni piena viene rispolverata da qualcuno. Non si può risolvere un problema creandone uno di nuovo». Adriano Ghizzo di Legambiente (nonché ex assessore a Sernaglia) lancia invece un severo monito a chi ha autorizzato le case in golena. «Chi ha permesso che si costruisse dentro il fiume deve assumersi tutte le responsabilità, sia per quanto riguarda l’incolumità dei suoi concittadini, sia per il profilo economico. Credo che non sia accettabile che, dopo aver permesso che la gente edificasse in alveo, ci sia chi voglia far pagare i costi di questa scelta sconsiderata agli altri». Leggermente diversa è la posizione del sindaco di Maserada, Marziano De Piccoli, il comune che vanta il maggior numero di case nel Piave. «Maserada già negli anni ’70 approvò un Piano regolatore che vietava l’edificazione in alveo, ma abbiamo comunque contemplato di autorizzare gli ampliamenti per dare modo alle aziende di svilupparsi e alle famiglie di poter dare una casa ai figli. Va comunque detto che chi costruisce nuove porzioni di fabbricati in golena firma una liberatoria in cui s’impegna a non chiedere risarcimenti in caso d’alluvione: i cittadini sanno a quale rischio vanno incontro. Ritengo che vadano realizzate opere di difesa per mettere in sicurezza i residenti, ma se si tratta delle casse di espansione Maserada non è il luogo migliore».

Treviso, mercoledì 4 dicembre 2002, S. Giovanni Damasceno
G. TREVISO MOGLIANO
Mille case in golena, e si costruisce ancora
Mappa delle edificazioni a rischio lungo il Piave
di Ingrid Feltrin
MONTEBELLUNA. Scampato pericolo, ma la piena del Piave lascia una scia di polemiche. Sotto accusa sono le edificazioni nell’alveo del fiume: oltre mille edifici residenziali e centinaia (mai calcolati) di fabbricati produttivi, alcuni anche di grandi dimensioni, lungo l’intero corso. E mentre i sindaci dicono di non voler più autorizzare nuovi insediamenti, in comuni come Crocetta – proprio il giorno dopo la piena – si è approvato l’ampliamento di alcuni impianti produttivi.
Pederobba. Nella sua corsa verso il mare, il Piave, quando arriva nella Marca, lambisce da subito uno dei maggiori complessi industriali della Marca, il Cementificio di Pederobba. Un insediamento vastissimo che, se dovesse essere interessato da un piena, potrebbe provocare, a detta degli esperti, grosse incognite sotto il profilo ambientale.
Valdobbiadene. Sulla sponda si trovano i capannoni dell’allevamento di visoni Pan Crystal: già nel 1966 fu interessato dall’alluvione.
Vidor. Scendendo verso valle è ubicato a due passi dal ponte di Vidor un impianto di lavorazione della ghiaia, che di recente è stato contestato dagli ambientalisti, poichè in questo sito è stata accumulata una grossa quantità di ghiaia, oscurando alcune arcate del ponte: della cosa fu interessato anche il Genio, ma dopo un ridimensionamento di questo ambito di stoccaggio tutto è tornato come prima.
Crocetta. Poco lontano si trova, sulla sponda destra, l’area di lavorazione della ghiaia di Crocetta, un ambito che ospita tre aziende tra le quali la Old Beton che, proprio all’indomani della piena, ha visto approvata dall’amministrazione comunale la sua richiesta di ampliamento del cantiere. In questa zona il Piave non scorre più da tempo, ma molti temono che uno spostamento del fiume possa inondare quest’ambito, con il conseguente inquinamento del territorio rivierasco, poiché alcune ditte lavorano anche bitumi.
Nervesa. Qui gli insediamenti impropriamente ubicati dentro la golena non sono molti, ma tra questi c’è una avio-superficie per ultraleggeri con alcune costruzioni.
Susegana. In questo comune ben più consistente è la cementificazione golenale: oltre ad esserci numerosi complessi produttivi, tra i quali anche lo stabilimento Grigolin (a valle del Ponte della Priula), si trovano pure 89 case in cui risiedono quasi 300 persone.
Spresiano. Il fenomeno è più contenuto a Spresiano, dove vivono nel fiume 75 persone in 19 edifici.
Cimadolmo. Qui ci sono 44 case in cui abitano 164: va comunque detto che i dati risalgono al 1997 quando gli ambientalisti chiesero all’Autorità di bacino di compiere un censimento che, sorprendentemente, fino a quel momento non era mai stato fatto.
Maserada. In questo comune si superano tutti i record dell’urbanizzazione in alveo, con 242 edifici residenziali e 967 persone che vivono in golena, ma il sindaco Marziano De Piccoli precisa che attualmente gli abitanti sono oltre 1100. In questo comune inoltre sono presenti molti complessi artigianali e industriali e degli impianti sportivi, ma presto potrebbe sorgere un secondo insediamento polivalente con tanto di piscine.
Breda e Ormelle. Il lungo elenco delle edificazioni prosegue con, rispettivamente, 71 (con 284 residenti) e 47 (con 187 residenti) case.
San Biagio. Qui le abitazioni in golena sono 48 in cui vivono 190 persone.
Ponte di Piave. Ospita in golena 80 edifici con 320 residenti.
Salgareda. Qui il fenomeno dell’urbanizzazione golenale è meno forte (16 case per 64 abitanti).
In generale buona parte delle case è datata, ma non mancano anche edificazioni recenti come a Maserada dove il comune consente ampliamenti fino a 800 metri cubi per ogni abitazione. Il Piano stralcio ha previsto lo stanziamento di ingenti fondi per dare un aiuto a chi desidera lasciare la propria casa e ricostruirne una fuori dalla golena e vieta la manutenzione straordinaria degli edifici per scoraggiare nuovi insediamenti in alveo.

 

Treviso, domenica 1 dicembre 2002, S. Eligio

 

«Nuovi edifici nell’alveo del Piave»
La denuncia di un consigliere: «Spuntano villette e impianti sportivi»
Allarme per il Piano di Bacino, qualche sindaco vorrebbe cambiarlo
Maserada e Crocetta nell’occhio del ciclone In pieno allarme il Comune montelliano ha ceduto alcune aree ai cavatori di ghiaia

 

(Ingrid Feltrin)
Case allagate a Fagarè

Il Piave ha smesso di “mormorare” ma ora a far sentire la sua voce ci ha pensato Fausto Pozzobon, consigliere di minoranza a Maserada, denunciando quanto è stato fatto in golena nel suo Comune. Sull’alveo del Piave sono state realizzate delle nuove villette e solo grazie alle norme di salvaguardia imposte dal Piano di Bacino sono state bloccate – spiega Pozzobon – La cosa è vergognosa, perché queste costruzioni, in via Spartaco Lantini, sono in un’area dove il fiume potrebbe esondare alla prima piena. Il rischio è reale e serio, ciononostante queste abitazioni sono state regolarmente autorizzate dal Comune».

In questi giorni, esperti, tecnici ma anche molti sindaci hanno ribadito a gran voce che non bisogna più costruire nuove case nel fiume ma a quanto pare c’è ancora qualche amministratore che sulla questione si regola diversamente. «Si tratta di sette villette, non ancora ultimate per il divieto dell’Autorità di Bacino, ma che portano un vistoso cartello con scritto “vendesi” – aggiunge Pozzobon – come se l’immobiliare che le ha realizzate non avesse capito che quelle case non si potranno mai finire, sempre che qualcuno non conti di affossare il Piano di Bacino».
La frecciata è riferita all’iniziativa di un gruppo di sindaci che da subito hanno osteggiato lo strumento di pianificazione del Piave prodotto dall’Autorità di Bacino e che proprio nei prossimi giorni andranno a Roma con delle controproposte per il ministro Matteoli. E mentre Maserada vanta il triste primato del comune con il maggior numero edifici in alveo (242 costruzioni in cui risiedono ben 967 persone), ci sono anche altri insediamenti in arrivo. «Non va dimenticato che al Parabae è stato costruito un nuovo impianto sportivo dentro al Piave. Evidentemente non c’è alcun interrogativo sul rischio per l’incolumità dei fruitori di questa struttura ed è pure piaciuta dal momento che ora si discute di una Parabae bis». I 36 ettari di demanio militare che ospitano un’ex caserma nelle grave di Maserada saranno infatti messi in vendita dal Ministero della Difesa e secondo quanto ha spiegato Pozzobon in Comune sta valutandone l’acquisto per realizzare un secondo centro sportivo e delle piscine. «Quanto poi alle case che esistono da tempo nel fiume stanno diventando sempre più estese perché – aggiunge il consigliere – basta che qualcuno ci costruisca vicino un annesso e chieda il cambio di destinazione d’uso ed ecco che si aggiunge una nuova porzione: ci sono zone golenali in cui le case sono lunghe più di cento metri».
Il caso di Maserada non è isolato, proprio venerdì sera il consiglio comunale di Crocetta ha approvato, con i soli voti di maggioranza, la vendita di alcuni terreni nel Piave e la concessione in uso di altri sempre nel fiume, a beneficio dei cavatori perché possano ampliare gli impianti di lavorazione della ghiaia. «Mi chiedo con che coraggio questa amministrazione ha portato in Consiglio una proposta simile all’indomani di una piena che ha allarmato l’intera provincia – ha commentato il consigliere Fiorenzo Moretto – si sta andando contro ogni buonsenso».

 

 

Treviso, sabato 30 novembre 2002, S. Andrea Apostolo

«Paghiamo il malgoverno dei fiumi»

Gli esperti concordi nel chiedere una politica più attenta al territorio

Ingrid Feltrin

Il centro di smistamento dei sacchetti di sabbia a Motta

TREVISO. Il peggio è passato per chi vive lungo il Piave ed il Livenza ma anche se la situazione sta tornando lentamente alla normalità gli esperti continuano a mettere in guardia dai rischi che sono sempre in agguato per le popolazioni rivierasche. «All’origine di quanto è accaduto lungo il Piave ed il Livenza c’è indiscutibilmente il malgoverno dei fiumi che del resto è un fatto noto di cui si parla non da anni ma bensì da secoli» – spiega il professor Marcello Zunica, tra i maggiori esperti di fiumi.

«Nel 1550 Giovanni Battista Alberti scriveva che essendosi moltiplicati gli uomini ed essendo stata disboscata la montagna ed usate più intensamente le aree in pianura, l’acqua dei fiumi viene giù più velocemente – prosegue il professor Marcello Zunica che, oltre ad essere tra i maggiori esperti di fiumi, e del Piave in particolare, è docente all’Università di Padova – La situazione quindi non è cambiata nei fiumi ma mi chiedo perché almeno non si smetta di costruire case e fabbriche dentro alle golene o a pochi metri dagli argini. E’ chiaro che se l’argine cede, cosa che può verificarsi, o se i corsi d’acqua divagano dentro in alveo questi edifici vengono sommersi. I fiumi fanno le stesse cose da sempre: in regime di magra si seccano e quando c’è il disgelo o piove molto s’ingrossano ed esondano. Servono politici coraggiosi che intervengano governando in modo corretto i corsi d’acqua, rispettandone la morfologia e, laddove non è possibile, creando delle opere di difesa senza risparmio di mezzi economici».
Le riflessioni di Zunica vedono concorde anche Gianni Moriani dell’Università Cattolica di Roma: «Nel Piave ci sono oltre mille edifici all’interno degli argini ed il territorio circostante si è in buona parte impermeabilizzato, tant’è che sono nella provincia di Treviso si contano 380 zone industriali a fronte di 95 comuni – dice Moriani – Bisogna rispettare il fiume e mettere in sicurezza del territorio investendo molto ma al fine di risparmiare in futuro: ogni anno infatti in tutta Italia si spendono migliaia di miliardi per i danni causati dai fiumi ma non viene stanziato nulla per fare una corretta prevenzione».
L’ingegner Antonio Rusconi, dell’Autorità di Bacino sottolinea, invece, che i fatti di questi giorni confermano le analisi e le previsioni degli ultimi anni: «In un sistema idrogeologico molto vulnerabile occorre una corretta pianificazione degli interventi e la manutenzione del territorio va effettuata in modo sistematico. Comunque Rusconi si dice persuaso che gli interventi previsti nel Piano di bacino di Piave e Livenza costituiscono il riferimento per attuare la difesa del suolo e che la loro realizzazione rappresenta il migliore strumento per la prevenzione e il migliore investimento contro i disastri idrogeologici nell’interesse dell’incolumità delle popolazioni e anche dello sviluppo economico.

Treviso, venerdì 29 novembre 2002, S. Saturnino
E adesso tracima la rabbia dei sindaci
Una delegazione a Roma: «L’Enel ci ha buttato addosso la piena»
L’argine franato al confine tra Meduna e il Pordenonese
(Ingrid Feltrin)
TREVISO. Piave e Livenza stanno rientrando nel loro alveo ma a tracimare è la rabbia dei sindaci, che si sono sentiti abbandonati dalla istituzioni. E chiedono agli enti superiori un interessamento maggiore nei confronti della realtà fluviale, non limitato agli eventi di piena. «Nessuno ci ha contattati e non ci è stato nemmeno inviato un fax per comunicarci lo stato di allerta – dice il sindaco di Mansuè Luigino Rancan – Abbiamo ricevuto l’aiuto solo di un gruppo di volontari della protezione civile di Montebelluna e del vicino Comune di Fontanelle. Ma se non era per il nostro gruppo di volontari, i carabinieri e gli assessori che a turno con i dipendenti del Comune hanno vigilato il fiume, non so come avremmo fatto»
«Capisco che forse a Motta e a Meduna la situazione era più grave – continua Rancan – ma non è possibile essere dimenticati in questo modo, senza aiuti. Dove finisce l’argine, a Mansuè, abbiamo dovuto costruire uno sbarramento con le ruspe del Comune e allestire, sempre da soli, degli alloggi di emergenza in una sala polifunzionale per 15 famiglie sfollate». Uno sfogo amaro, al quale fa eco quello dell’assessore ai Lavori pubblici di Meduna, Marco Astolfo, che senza mezzi termini accusa l’Enel di aver rilasciato l’acqua degli invasi montani aumentando l’onda di piena: «Non si capisce come sia possibile che nessuno dia delle risposte su un fatto così grave – dice Astolfo – sappiamo per certo che sono stati aperti i bacini montani ma Prefettura e Genio Civile non ci danno risposte sulla ragione di questa scelta dell’Enel che ha messo in ginocchio il nostro paese. Ora che anche Pordenone è andata sott’acqua, forse qualcuno s’interrogherà su questa gestione assurda dei bacini. Per fortuna, almeno la protezione civile ci ha dato una mano tamponando i fontanazzi causati dal Meduna. Anche se questa volta, contrariamente che in passato, anche il Livenza ci ha dato preoccupazioni, visto che cala con enorme lentezza». Se sul fronte del Livenza gli amministratori locali all’indomani della piena sono furibondi, i loro colleghi dei Comuni plavense non sono da meno e denunciano la mancanza di manutenzione del territorio fluviale da parte degli organi competenti.
«A noi è andata bene, se non fosse stato per il traliccio che ha lasciato il paese senza corrente elettrica – commenta il sindaco di Spresiano Mauro Sordi – Abbiamo degli argini possenti e l’alveo è molto largo, ma dopo un evento come questo c’è di che interrogarsi su cosa potrebbe accadere se fosse arrivata una piena più importante. Nessuna istituzione si occupa della manutenzione degli argini e per non mettere a repentaglio l’incolumità dei cittadini siamo costretti ad intervenire noi, ma si tratta comunque di iniziative limitate. All’interno dell’area agrinata, infatti, sono cresciute piante altissime e le radici si stanno sviluppando alla base degli argini, minandone la tenuta».

Il sindaco di Ponte di Piave Gianni Marin, sulla questione degli argini, si dice concorde. Tanto più che, nel suo Comune, queste opere hanno una funzione di contenimento e non di difesa. Ma non nasconde un certo ottimismo, poiché con la redazione dei Pai (Piani di assetto idrogeologico), la Regione sarà chiamata a compiere la necessaria manutenzione delle arginature. A preoccupare maggiormente Marin è però la gestione complessiva del fiume: per questo, il 5 dicembre, sarà a Roma con una delegazione di sindaci per discuterne con il ministro per l’Ambiente Altero Matteoli: «Qualcuno ci dovrà dire se nei fiumi è prioritaria la produzione di energia idroelettrica o la pubblica incolumità, perché è fuor di dubbio che siano le dighe a snaturare il fiume e a creare questa situazione. Da Matteoli ci aspettiamo una risposta, ma stiamo anche lavorando a un progetto che veda coinvolti i consorzi di bonifica, l’Autorità di bacino e la Regione per ripristinare l’antico reticolo idraulico del territorio attraverso la manutenzione dei fossi». Giorgo Bin, sindaco di San Biagio di Callalta, sarà tra gli amministratori che incontreranno il ministro. E non risparmia la zampata: «E’ uno stillicidio, è necessario che si faccia la pulizia del fiume. Se siamo arrivati a questo punto è colpa dell’intervento dell’uomo, che ha cementificato il territorio».

Treviso, giovedì 28 novembre 2002, S. Giacomo
Sotto accusa anche le dighe montane: la ghiaia si è depositata nei posti meno indicati, è cresciuta la vegetazione e al centro dell’alveo s’è creato un canyon
«Colpa dell’escavazione selvaggia»
L’Autorità di bacino: «Su Piave e Livenza un mix di interventi dannosi»
A rischio soprattutto l’imbuto di Meduna e la fascia compresa fra Nervesa e Candelù

 

di Ingrid Feltrin
TREVISO. La situazione dei fiumi Piave e Livenza in questi giorni apre grossi interrogativi, non solo su quali sono le zone più a rischio, ma anche sui motivi che hanno portato a questo stato di cose. Tecnici e ambientalisti sembrano d’accordo su alcuni aspetti: all’origine dei recenti eventi c’è soprattutto la cattiva gestione dei fiumi. Ma quali sono le zone di maggior pericolo? «Per il Piave abbiamo individuato tre fasce di rischio: la prima da Nervesa a Candelù, la seconda da Candelù a Zenson e la terza da Zenson alla foce del fiume – spiega Antonio Rusconi, segretario generale dell’Autorità di Bacino dell’alto Adriatico, che ha il compito di pianificare tutti i fiumi del Nordest – Nella prima il Piave è in grado di contenere una portata di piena di quasi 4000 metri cubi al secondo mentre nel secondo tratto dove il fiume cambia pendenza può sopportarne solo 2000: qui infatti il corso del fiume è più stretto e nel 1966 si verificarono ben 14 rotte. Quanto al terzo tratto – prosegue Rusconi – è altrettanto critico perché può sopportare un onda di piena di 2000 metri al secondo, ma solitamente questa zona rischia di rado di essere allagata perché il Piave rompe prima di arrivarci, sfogandosi nel tratto che va da Candeù a Zenson. Nel corso montano invece ci sono situazioni, come quella di Longarone, dove la zona industriale è stata costruita nel fiume, ma ci sono anche altri rischi nel Bellunese dati dalla viabilità, visto che molte strade sono state costruite nel fiume».
Relativamente al Livenza la situazione è diversa perché si tratta di un fiume meno esteso che ha inoltre un’origine sorgiva e non torrentizia come il Piave. «Le criticità del Livenza sono date dal tratto più stretto, dove il fiume forma un budello, in corrispondenza dell’affluente Meduna, sul ponte della statale 13 a Pordenone – precisa Rusconi – La capacità massima di portata di 3000 mc/s del fiume, qui si riduce drasticamente a 1200 ed inevitabilmente il corso d’acqua esonda».
Sulle ragioni che hanno provocato questo stato di cose il segretario generale dell’Autorità di Bacino non ha dubbi: «Il ragionamento può valere per tutti i fiumi ma nel caso specifico del Piave, per il quale comunque non si sono raggiunti livelli di allarme particolarmente importante – precisa Rusconi – va detto che è in sofferenza a causa dell’escavazione eccessiva degli ultimi decenni, anche se non siamo ai gravi livelli raggiunti dal Brenta, dove l’asporto di ghiaia è stato tale da creare un vero e proprio canyon nel letto del fiume. Non va comunque sottovalutato anche un altro aspetto importante, dal momento che le dighe montane costruite dai nostri padri hanno snaturato l’assetto morfologico del fiume che oramai o è in secca o in piena e non presenta più la portata costante di un tempo. La conseguenza di questo fenomeno è, non solo la crescita dei boschi nelle golene, ma anche l’accumulo di ghiaia in modo disordinato: per questo servirebbe una corretta manutenzione dell’alveo, spostando la ghiaia dalle zone in cui è in eccesso a quelle in cui manca». Rusconi spiega che, solo attraverso una pianificazione corretta dell’intero bacino idrografico del Piave, si può affrontare seriamente la questione e punta il dito contro i sindaci: «Purtroppo in buona parte o non sono consapevoli di essere chiamati a pianificare un territorio fluviale o fanno finta di non saperlo. Per fortuna da ora in avanti, grazie alle legge Soverato, i comuni dovranno sottostare ai Piani di assetto idrogeologico e saranno chiamati anche a dare il loro contributo in sede di redazione. I piani consentiranno di perimetrare le zone più a rischio e diventeranno strumenti urbanistici a tutti gli effetti: si tratta di un passo avanti a livello culturale, che chiamerà gli amministratori locali a rispondere del loro territorio». Uno dei massimi esperti di fiumi tra gli ambientalisti è l’ingegner Gigi Ghizzo della Legambiente di Sernaglia che nota una singolare tendenza: «A esondare sono sempre più spesso i corsi d’acqua più piccoli: di recente il Livenza ha dato più problemi del Piave. E non è casuale, dal momento che si tratta di torrenti che hanno dei tempi di corrivazione più rapida: l’acqua tende a correre più veloce, una caratteristica che con la cementificazione selvaggia si accentua creando disastri ovunque ma è chiaro che la responsabilità è comunque dell’uomo». Ghizzo spiega inoltre che, ormai, non si fa più la manutenzione del reticolo idrografico per effetto dell’abbandono della campagna e perché i Consorzi di bonifica, a suo dire, non fanno la pulizia dei corsi d’acqua minori, come avveniva in passato.

Le acque del Livenza premono sugli argini (Foto Gavagnin)

«In golena mille tra case e fabbriche»
Parla Gigi Ghedin del Wwf Veneto: «Il fiume è stato governato male»

 

i.f.
TREVISO. Sui fatti del Piave a dire la sua c’è anche Gigi Ghedin del WWF Veneto che lancia un monito inquietante sulla realtà fluviale. «Nell’alveo del Piave abitano ben 2572 persone e si contano quasi 1000 fabbricati – spiega Ghedin – un dato inquietante che dà la misura di come è stato governato il fiume e della superficialità degli amministratori che hanno autorizzato la realizzazione di case e fabbriche entro al fiume mettendo a repentaglio l’incolumità della gente». I dati sono ufficiali e vengono dall’Autorità di Bacino che nel 1995, sollecitata dagli ambientalisti, decise di fare un censimento. Il record per il numero di costruzioni in alveo spetta a Maserada con 967 residenti e 242 fabbricati che andrebbero delocalizzati, ma non sono da meno Ponte di Piave con 320 persone che vivono dentro gli argini del fiume e Ormelle con 284. Degni di nota sono anche i dati dei comuni di: Susegana con 272 residenti, San Biagio con 190, Breda con 187, Cimadolmo con 164 e Spregiano che conta 75 persone tra coloro che abitano in case costruite nel letto del Piave. Il fenomeno dell’edificazione residenziale in golena è tipicamente trevigiano (nel Bellunese ci sono soprattutto fabbriche) ed i comuni interessati sono ben 12 ma non mancano situazioni emblematiche come quella di Pederobba dove nel Piave è stato costruito lo stabilimento della Cementirossi.

 

30/07/2002 La TRIBUNA di TREVISO

Piave saccheggiato, 14 sotto inchiesta

LA STORIA

Dai pretori d’assalto ai fertilizzanti
Venticinque anni di battaglie: nemici e difensori del fiume sacro alla Patria
Le numerose dighe per l’energia elettrica rubano l’acqua e fermano sabbia e ghiaia Allarme anche per le spiagge impoverite
di Ingrid Feltrin
Era il 1977, quando il «pretore d’assalto» Francesco La Valle, bloccò per la prima volta l’asportazione di ghiaia dal Piave per fini economici. All’epoca venne accertato il furto di dieci milioni di metri cubi di materiale inerte e i responsabili dell’illecito vennero arrestati, ma è proprio il caso di dire che se da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, a quanto pare la cose non sono cambiate. La ghiaia è l’oro bianco del fiume ma rispetto a qualche decennio fa la situazione è mutata ed asportare ghiaia senza controllo può rappresentare un rischio maggiore che in passato. La costruzione delle dighe nel tratto montano, intorno agli anni Cinquanta, ha infatti ridotto di molto il trasporto solido di ghiaia e sabbia, dando origine ad un fenomeno d’erosione nell’alveo. In parole povere, se prima a ogni piena il Piave tendeva a divagare nella golena, da alcuni anni si sta incuneando, scavando dei solchi che contribuiscono ad accelerare la velocità dell’acqua. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano se però buona parte della bassa trevigiana e della provincia di Venezia non fossero zone ad alto rischio di esondazioni che presentano caratteristiche tali da non sopportare l’arrivo di una piena che abbia dei tempi di corrivazione troppo veloci. L’asporto abusivo di ghiaia non crea quindi solo un danno ambientale ma anche seri interrogativi sulla sicurezza delle popolazioni rivierasche. Gli esperti portano come riprova il mancato rimpascimento del litorale di Jesolo, il Piave non porterebbe più sabbia alle spiagge. Negli ultimi anni sono stati spesi oltre 500 milioni di euro per creare delle cave marine, per risolvere il problema e non solo per aiutare l’economia turistica ma anche per dare sicurezza alla città che è sotto il livello del mare.
La presenza delle dighe nel tratto a monte ha innescato anche un preoccupante fenomeno d’inghiaiamento. Le dighe del Piave, che producono il 7% dell’energia elettrica nazionale, non hanno delle bocche di fondo per consentire il passaggio di ghiaia e sabbia. Secondo l’Autorità di Bacino dell’Altro Adriatico ogni anno resterebbero circa un milione di metri cubi di inerte negli invasi ma portare via il materiale costa molto perché oltre a ghiaia e sabbia c’è il limo.
Parlando di dighe, però, si finisce per toccare il tema della cronica mancanza d’acqua nel fiume durante i mesi estivi, imputata in parte ai consorzi di bonifica, in parte all’Enel che gestisce le dighe. L’ente è al centro di molte critiche poiché dirotta sul Livenza 15 metri cubi al secondo dalla centrale di Soverzere, privando il Piave della sua risorsa. Quanto ai consorzi di bonifica, va detto che se da una parte è indiscutibile la loro funzione di sostegno all’agricoltura, dall’altra sono accusati di non aver compiuto grandi sforzi per riconvertire gli impianti irrigui, passando da quelli a scorrimento all’irrigazione a pioggia (che richiederebbe un minor consumo d’acqua). Ora si studiano nuove coltura che abbiano minori esigenze d’acqua: il mais richiede, infatti, un irrigazione abbondante e costante.

Pure il rigoglio di alberi e piante sulle grave avrebbe una natura discutibile. L’acqua è ricca di fertilizzanti, in parte provenienti dalle coltivazioni ma tra gli ambientalisti c’è anche chi punta il dito sulla scarsa efficienza dei depuratori comunali.

11/08/2002 La TRIBUNA di TREVISO

Sdraio e ombrelloni in riva al Piave

«Inquinamento e tanti gorghi»

Ambientalisti e Autorità di bacino lanciano l’allarme

Ingrid Feltrin

Il greto del Piave potrebbe tornare ad essere come nel ventennio fascista quando Mussolini fece istituire lungo gli alvei di tutti i fiumi italiani i «campi solari», ovvero spiagge fluviali per i meno abbienti. Citazioni storiche a parte, la proposta della Provincia di Treviso suscita qualche perplessità e non tanto perché fare il bagno nel fiume non sia una cosa piacevole ma per le molte incognite sanitarie che questa pratica potrebbe sollevare. Ad onor del vero, anche oggi sono in molti a nuotare nel Piave, per cercare un po’ di ristoro nei mesi estivi, ma i bagnanti lo fanno a loro rischio e pericolo, visto che dopo i casi di leptospirosi sono state emesse in tutti i comuni rivieraschi ordinanze che vietano la balneazione. «Va detto che alcune zone sono pericolose, perché il fiume ha molti gorghi e talvolta correnti infide – commenta Lino Gai del gruppo ecologico “MartinPescatore” di Valdobbiadene – ma non va dimenticato che ci sono anche i rischi dati dall’inquinamento del fiume, dal momento che quando manca l’energia elettrica i depuratori dei comuni non sono muniti di generatori autonomi ed i liquami vengono scaricati direttamente nel Piave». Va ricordato che la Provincia è l’ente preposto alla qualità delle acque, ma i monitoraggi non sono mai stati particolarmente puntuali nonostante ci siano presenze inquietanti nel greto del fiume. «Negli anni Sessanta i governi democristiani hanno realizzato decine di discariche nelle grave del Piave e non è un caso che la gente nuotando nel fiume rischi di contrarre la leptospirosi – spiega Gigi Ghizzo della Legambiente di Sernaglia – I rifiuti sono ancora tutti lì e continuano a fermentare lentamente, ospitando colonie di ratti. Certo fare il bagno nel fiume è possibile, ma quali sono i rischi a cui si va incontro? Prima di creare delle spiagge fluviali sarebbe decisamente il caso di risanare l’intero alveo dalle discariche». Sulla questione il noto ambientalista Geremia Bonan, già delegato del Wwf, pone ulteriori interrogativi: «Il Piave non ha né viabilità né spazi adeguati da adibire a parcheggi per i bagnanti e non credo che crearne ad hoc faccia bene al fiume».

Sotto il profilo normativo e tecnico si è pronunciato anche l’ing. Antonio Rusconi, segretario generale dell’Autorità di Bacino dell’alto Adriatico: «Il decreto legislativo 152 sulla tutela delle acque impone che sia l’Autorità di Bacino a fare i Piani per garantire la qualità delle acque, al fine di consentire anche la balneazione. Purtroppo questi strumenti non sono ancora stati ultimati ma fin tanto che non ci saranno mi pare azzardato proporre la balneazione anche perché la cosa va considerata a livello di bacino: non è pensabile che si faccia il bagno a Treviso senza aver prima valutato come viene gestito il fiume a Belluno dove potrebbe venir inquinato all’insaputa della provincia vicina».